Gira la Moda: Storia del Jeans - seconda parte

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I primi jeans americani furono commercializzati in Europa nel 1959 ed in Italia, i primi chiaramente ispirati a quelli d’oltreoceano, furono creati a Campi Bisenzio (Firenze) ad opera dell’intraprendente Francesco Bacci che, nel 1948 reduce da un viaggio americano a Greensboro (North Carolina) per visitare l’allora più grande produttrice al mondo di denim (la Cone Mills Corporation), cominciò a produrre abiti da lavoro con quei tessuti importati e nel giro di qualche anno (1952) creò il primo vero jeans italiano che chiamò Roy Roger’s. 

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Altro marchio nato in quegli anni a Prato ad opera dei fratelli Fratini (1958) fu Rifle e, sempre in Toscana, il marchio Glove che scomparirà negli anni Novanta. Ne seguirono tanti altri di cui alcuni ancora presenti sul mercato (oltre a Roy Roger’s e Rifle): Jesus, El Charro, Pooh, Pop 84, Ball, Carrera, Covers, Sisley, Diesel, Replay. Nella mia Val Vibrata nacquero marchi storici come Wampum e più tardi Casucci.

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Ma ci fu un marchio pioniere di una rivoluzione nella moda e nel costume, quello di Elio Fiorucci che nel 1967 aprì a Milano il bazar più pazzo d’Italia, l’antenato delle jeanserie e dei concept store, dove si potevano trovare i primi tanga e monokini, gli scaldamuscoli, i primi body e leggings, i primi skateboard…Un mondo coloratissimo di novità, di oggetti in plastica, di abiti vintage e naturalmente di tanti jeans, anche elasticizzati! Testimone di enormi cambiamenti, ebbe a dire “…da noi i negozi di abbigliamento erano tutti all’insegna dell’aristocrazia Old England o della sudditanza allo chic parigino, ma si affacciava un rapporto nuovo e libero col problema del vestire e dell’eleganza, la moda non sarebbe scesa più dall’alto come lo Spirito Santo, ma nasceva dal basso sotto la spinta di una turbinosa evoluzione del costume. Io ho avuto solo il merito di averlo capito”. Era nato il fashion jeans ed il denim sarebbe stato impiegato sempre più in modo originale.

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Nacquero sempre in Italia nel 1971 i jeans Jesus che fecero storia per la campagna pubblicitaria firmata da Emanuele Pirella e Oliviero Toscani mostrante un sedere femminile fasciato in aderentissimi calzoncini con la scritta “chi mi ama mi segua”, “non avrai altro jeans all’infuori di me”: la trasgressione imperante usava dogmi religiosi a fini commerciali tanto che anche Pier Paolo Pasolini ne fece un articolo di critica sociale sul Corriere della Sera.

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Già il 1978 sarà considerato l’anno della morte dei vecchi cari jeans: stilisti americani come Gloria Vanderbilt, Calvin Klein, Ralph Lauren e decine di altri caricarono il jeans di significati molto diversi riconducibili allo snob appeal. Si entrò nell’era dei designer jeans sui quali era immediatamente riconoscibile la firma dello stilista. Mentre negli anni Sessanta i jeans avevano rappresentato il collante di una generazione all’insegna dello stare insieme, il simbolo di un’epoca al di là del brand, dalla metà degli anni Settanta si verificò il fenomeno opposto. Grazie all’enfasi degli stilisti e a campagne pubblicitarie miliardarie, i jeans firmati diventarono lo status symbol di distinzione dagli altri. Il prezzo dei jeans aumentò in modo esponenziale e persino la pubblicità non mostrava più il jeans, ma un’idea, un’emozione, quasi sempre una promessa di sesso…

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Il mercato del jeans cominciava ad essere molto più articolato e complesso, sottoposto alle bizzarie della moda ed a un’estrema variabilità determinata da cambiamenti sociali che venivano dal basso.

Negli anni Ottanta le vetrine si riempirono di jeans strappati in conseguenza del fenomeno culturale del punk inglese di qualche anno prima, dove i jeans attillati e tagliuzzati venivano accessoriati con borchie, toppe, spille da balia e catene. A trasferire questa tendenza nel mondo del design fu la stilista inglese Vivienne Westwood il cui marito era il produttore ed inventore dei Sex Pistols, gruppo musicale punk, leader di quel periodo.

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Agli inizi degli anni Novanta vi fu un’altra novità: i cacciatori di tendenze (cool hunters), nuove figure professionali ingaggiate dalle grandi aziende del fashion, rilevarono un calo di gusto per i jeans griffati ed invece l’affermarsi di un grande desiderio di antico, di usato originale, di vintage appunto. Il traffico del jeans usato diventò un affare globale, soprattutto in Oriente (Giappone in testa) e in Europa (Germania in particolare).

Gli industriali del denim iniziarono a produrre jeans nuovi che sembravano già vecchi, vissuti. Pionieri di questa nuova tendenza furono i francesi Marithè Bachellerie e François Girbaud che, già dagli anni Sessanta usavano lo stone washing (lavaggio con le pietre) per ottenere l’ effetto vissuto. In realtà vi erano già molte tecniche conosciute ed usate precedentemente per ammorbidire il tessuto denim troppo duro, come l’uso dell’ipoclorito di sodio, del perossido di idrogeno, del permanganato di potassio o degli enzimi. A metà degli anni Novanta prese piede una nuova tecnica invecchiante ad azione meccanica resa attraverso un potente getto di sabbia sparato sul capo (sabbiatura) e, successivamente, attraverso la spazzolatura meccanica.

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All’avanguardia nel settore dei trattamenti si dimostrarono aziende italiane, in particolare quelle del Montefeltro (provincia di Pesaro-Urbino) e quelle della mia Val Vibrata (provincia di Teramo); quest’ultime hanno incarnato per decenni l’identità di questa vallata definita dai giornali dell’epoca La valle dell’Eden, per la tanta ricchezza prodotta. Molte furono le lavanderie di imprenditori locali specializzate in trattamenti ai jeans come la Wash Italia o il gruppo Fimatex (ancora esistenti) fino all’arrivo della veneta Martelli, leader internazionale del settore con stabilimenti in vari Paesi del Mediterraneo, che aprì una sua sede anche ad Ancarano (Te), da qualche anno delocalizzata.

Alla fine degli anni Novanta il rap diventò la nuova avanguardia musicale americana, nata spontaneamente dai ragazze nelle strade, espressione di una cultura urbana genuina, senza mediazioni. Poiché il rap non era cosa da ricchi, si indossavano i jeans dei fratelli maggiori che erano quindi larghi, sformati, con il cavallo basso (detti baggy jeans, cioè larghi, cascanti). Neanche la Levi’s captò il fenomeno in tempo per adeguare le produzioni, e milioni di dollari andarono in fumo. 

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Nel frattempo, nelle società civili occidentali maturava sempre più evidente una sensibilità ambientale che poneva il grande tema della sostenibilità. L’industria del jeans è una delle più inquinanti al mondo in quanto il cotone è una coltura molto esigente e chimicamente impegnativa, così come i trattamenti che necessitano anche di grandi quantità d’acqua.

Già nel 2006 la Levi’s immetteva sul mercato due nuovi modelli (mod. 506 uomo e 507 donna) totalmente organici e rispettosi dell’ambiente, intercettando quella sensibilità ecologica nella società: uso del cotone organico, bottoni in noce di cocco, cerniere in metallo non galvanizzato, tintura con indaco naturale, sapone di Marsiglia e amido di patate.

Questa attualissima sensibilità ambientale è acuita dai disastri che l’industria del jeans ha provocato nei paesi più arretrati, sfruttati sia per la coltivazione del cotone che per i trattamenti sui capi finiti. Infatti tutte le lavorazioni sono state per la maggior parte delocalizzate negli anni in paesi comodi per la mancanza di legislazioni ambientali e dei diritti dei lavoratori oltre che al basso costo della manodopera.

I marchi attivi nel settore degli eco-jeans si moltiplicarono: nacquero la Edun (fondata nel 2005 da Bono del gruppo musicale U2 e da sua moglie Ali Hewson) e l’americana Sevens (o meglio 7 For All Mankind); in California la Del Forte Denim che utilizza solamente cotone organico coltivato in North Carolina; a Londra la Sharkah Chakra che produce con cotone organico equo e solidale proveniente dall’Africa; in Olanda la Kuyichi jeans che promuove un prodotto sostenibile a filiera controllata (nacque come progetto per lo sviluppo del terzo mondo con coltivazioni di cotone organico in Perù attraverso la cooperativa di contadini Oro Blanco).

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La nuova frontiera del jeans è all’insegna dell’alta tecnologia: dai trattamenti che riducono al minimo lo scolorimento, a quelli resinati con effetto pelle, dal bioindigo (tintura indaco partendo da batteri) sperimentato in California, ai tessuti resinati ad effetto metallizzato, oppure ad effetto proteggente dai raggi Uva, dai campi elettromagnetici o con proprietà antimicrobiche sperimentati nella toscana Tecnotessile di Prato (centro di ricerca a capitale misto, formato da aziende tessili e dal MIUR-Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca). È stato creato anche un tessuto che ha la proprietà di rilasciare repellenti per insetti in aree a rischio o essenze profumate come i jeans alla violetta e al limone (effetto Scent-Up)!

Le italiane Candiani Denim e Italdenim utilizzano molte innovazioni che generano notevole risparmio di acqua ed energia elettrica e riducono le emissioni di CO2 come il cotone bio (coltivato senza l’uso di fertilizzanti inquinanti né pesticidi), processi di tintura virtuosi (come quello di decolorazione sotto azoto), o l’uso del Chitosano (fissatore naturale ottenuto dagli scarti dei crostacei dell’industria alimentare).Vi sono poi, due marchi importanti della mia Val Vibrata, Re-HasH e Tela Genova (facenti capo allo storico marchio Casucci), di cui l’uno ha intrapreso un percorso di ricerca, analisi e classificazione dei materiali ecosostenibili con l’uso di Chitosano, appunto, (in collaborazione con TRC Candiani Denim) e tinte Indigo Juice (modalità innovativa che permette di tingere il denim utilizzando meno acqua ed energia); l’altro che sceglie tele con mischie di filati rustici e in cotone organico (certificato Gots) a basso impatto ambientale, tessuto giapponese Kuroki (realizzato in cotone africano raccolto a mano e lavorato ancora a mano su antichi telai): i jeans prodotti sono un mix di cultura, tecnologia artigianale e avanguardia.

Alla prestigiosa storia della mia vallata si aggiunge anche il giovane marchio Don the fuller che propone miriadi di modelli ed effetti, fondato da professionisti trentennali nel settore dei trattamenti.

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Nel 2000, sempre in Abruzzo nasce il marchio Blue Blanket jeans ad opera di Antonio Di Battista che, sulla scia di una grande fascinazione per il Western, forte di una lunga esperienza nel fashion jeans, propone pantaloni denim cimosati vergini che diventeranno pezzi della nostra vita: sono da indossare per più mesi senza lavarli in modo tale che l’usura avvenga in modo naturale; la trascrizione nell’etichetta interna delle date di ogni lavaggio, testimonierà la storia personalizzata di ogni capo, unico e irripetibile! Antonio Di Battista è considerato uno dei maggiori esperti di finiture e lavaggi, è uno storico del denim; ha pubblicato libri inerenti ed ha una collezione di vecchi jeans da tutto il mondo e circa 2000 pezzi di American Denim History.

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Nel 2017 il Marchio Max Mara in collaborazione con Woolmark Company (l’associazione che tutela e certifica la lana merino australiana), ha presentato il primo jeans interamente in pura lana vergine, un tessuto forte, morbidissimo ed adatto sia per l’inverno che per l’estate.

Le ultime preferenze e tendenze, probabilmente per un’esigenza di chiarezza e quiete in conseguenza dei molti stimoli visivi, sensoriali e iperconnessioni social, ci parlano di un jeans assolutamente pulito, dalle linee pure ed essenziali, pur in un mare di modelli, stili, lavaggi e decori.

La primavera 2019 è caratterizzata dalla nascita del primo slip in tessuto jeans ad opera del marchio francese Y/Project, decisamente inguardabile.

Indiscrezioni riportate da Il Sole 24 Ore (13 maggio 2019), parlano di un avanzato studio della Levi’s nell’uso della canapa al 31% in mischia col cotone per i futuri jeans. Il responsabile per l’innovazione Paul Dillinger, ha anzi precisato che entro cinque anni la canapa potrà essere usata al 100%, riducendo così le quantità d’acqua e i pesticidi della filiera produttiva, così massivi per le coltivazioni di cotone. La sfida più grande sarà trovare una lavorazione che renda il tessuto morbido, indossabile e a costi accettabili rispetto a quelli attualmente competitivi del cotone. Per il jeans è quindi, un ritorno al passato.

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Se è vero, com’è vero, che nella sua lunga storia, il jeans ha testimoniato i cambiamenti di costume, non poteva comunque mancare quello che riproduce l’usura a forma di cellulare sulla tasca! Segno dei tempi.

 

Cesarina Di Domenico-verdefiloLab

 

-Bibliografia: “Blue de Gênes-Piccola storia universale del jeans”-Remo Guerrini-Ed. Mursia-2009

-Enciclopedia Treccani on-line

-Wikipedia

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