Gira la Moda: Jeans mon amour

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Non c’è indumento nella storia dell’umanità che abbia avuto una diffusione capillare e trasversale come il jeans: una rivoluzione nella storia del costume che ha interessato molti milioni di persone nel mondo.

È una lunga vicenda alla cui base ci sono quattro elementi fondamentali come un tessuto (di canapa/lino e cotone), una città (Genova, da cui prende il nome), un’armatura tessile (saia o serge, cioè il modo di intrecciare i fili di trama ed ordito), un colore (il blu indaco) e che affonda le sue radici nel profondo Medioevo.

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Nell’ XI secolo in Europa si verificò una grave crisi nella produzione laniera dovuta alla destinazione di migliaia di ettari di pascoli all’agricoltura determinando un enorme aumento del prezzo di quella fibra animale che fino a quel momento era stata alla portata di tutti; bisognava inventare un tessuto che contenesse la minor quantità possibile di lana: nacque così il fustagno, tessuto misto, economico, robusto e versatile, avente come filo di trama il cotone importato dall’Oriente, e come filo di ordito il lino o la canapa abbondantemente coltivati in Europa. La produzione e il commercio del fustagno ebbero origine in Italia grazie agli importatori di cotone genovesi e veneziani e ai fabbricanti e commercianti padani altamente organizzati, che rifornivano tutti i mercati e città europee. Il fustagno genovese, prodotto in tutto l’entroterra del Piemonte rimase a lungo concorrenziale grazie all’ottimo rapporto qualità/prezzo: le balle di fustagno che si accalcavano sulle banchine portuali estere venivano contrassegnate con la parola “jeans” (da Gênes, alla francese) per indicarne il luogo di provenienza: sarà questo l’origine di una lunga storia.

Ai giorni nostri il tessuto jeans è largamente considerato sinonimo del denim ma all’origine avevano delle differenze: il denim veniva dalla città francese di Nîmes (de Nîmes, contratto poi in denim), aveva la stessa armatura saia o serge (era anch’esso un fustagno, cioè un tessuto misto, all’origine in seta/lana) ma, colori diversi: il filo d’ordito era blu e quello della trama bianco o ecrù; nel jeans la trama e l’ordito erano quasi sempre dello stesso colore, cioè blu. Inoltre la struttura del tessuto denim era più rozzo, robusto ed economico mentre il tessuto jeans era più adatto al taglio e al cucito per l’abbigliamento quotidiano

Nel blu dipinto di blu
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Come abbiamo sopra detto, la storia del jeans è indissolubilmente legata al colore blu. A fine Quattrocento, con la circumnavigazione dell’Africa ad opera di Vasco da Gama che abolisce tutti i dazi via terra, il mercato europeo fu invaso dall’Indaco (Indigofera Tinctoria L.), pianta vegetale proveniente dall’India, già conosciuta ed usata, il cui prezzo economico sostituì il Guado europeo e che sarà la caratteristica inconfondibile dei tessuti jeans o denim. Il blu è legato anche ad un premio Nobel, quello per la chimica assegnato nel 1905 al tedesco Johann von Baeyer che nel 1880 aveva definito la struttura molecolare dell’indaco.

Dopo ulteriori ricerche, nel 1887 il mercato fu invaso dall’indaco di sintesi (molto più economico di quello naturale) messo a punto dall’azienda tedesca BASF con la consulenza e la partecipazione societaria di von Baeyer: tutta la grande industria tessile mondiale divenne cliente di quell’azienda determinando uno dei maggiori successi imprenditoriali di fine Ottocento!

Caratteristica inconfondibile del jeans è che il colore blu indaco tende a scolorire per strofinamento, difetto che diverrà invece una delle qualità fondamentali per quel tessuto.

C’è una data precisa e convenzionale che sancisce la nascita del jeans ed è il 20 maggio 1873 quando venne registrato in California un brevetto che autorizzava la produzione di pantaloni in cotone robusto migliorati dall’uso di rivetti metallici sulle tasche, ad opera di Levi Strauss e Jacob Davis: il jeans era nato ma non si chiamava ancora così.

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Levi Strauss era un commerciante ebreo di tessuti emigrato con la famiglia dalla Baviera a New York e poi a San Francisco dove aprì un emporio che portava il suo nome. Jacob Davis era un sarto lituano di Riga emigrato nel 1850 e stabilitosi in Nevada dove aveva un’attività di produzione di tendoni per coprire i carri dei pionieri (i famosi conestoga) e tende da campo. Usava rotoli di denim fornitogli da Levi Strauss. E qui la storia dei due protagonisti si incrocia divenendo soci in affari, l’uno fornendo capitali e tessuti e l’altro l’idea geniale dei rivetti.

Avviarono la produzione di questa tipologia di pantalone che in realtà si indossavano per coprire gli altri indumenti durante il lavoro (chiamati waist overalls), non erano obbligatoriamente blu, anzi i primi erano di colore marrone chiaro come le tende e i tendoni. E nel nuovo stabilimento in Market Street nacque il mitico Levis’s modello 501, ancora oggi riproposto.

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Fu un successo immediato! Questi pantaloni rivettati che rafforzavano i punti di maggior usura, avevano caratteristiche precise: una patta con tre bottoni, due tasche anteriori, una posteriore e si indossavano con le bretelle. Più tardi si aggiunsero il taschino per l’orologio e le monetine, la seconda tasca posteriore, la cintura e i passanti; i bottoni per le bretelle vennero definitivamente aboliti solo nel 1937! Nel 1886 Strauss inventò e usò per la prima volta la famosa retro etichetta (two horse brand) raffigurante due cavalli che, tirando in direzione opposte, invano cercano di strappare un paio di suoi jeans incredibilmente resistenti.

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Il viaggio dei overalls continuerà e si diffonderà grazie alla grande richiesta di workwear (abiti da lavoro) da parte di ferrovieri, carpentieri, meccanici, in conseguenza del grande business della corsa all’oro, ed anche grazie agli altri due marchi storici americani Wrangler e Lee. A quest’ultimo è dovuto l’invenzione della salopette da lavoro che divenne anche l’uniforme dei fanti americani nella Prima guerra mondiale. I tre marchi si contendevano il mercato americano con tre curiose ripartizioni: Levi’s era il preferito negli Stati del Sud, Wrangler in quelli del Nord, Lee nel Middle West.

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Quindi all’origine del jeans ci sono il lavoro manuale pesante di cercatori d’oro, minatori, mandriani, contadini, meccanici e la necessità di un indumento forte e protettivo.

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Ci vorrà la grande crisi economica del ’29 per trasformare i jeans da abito da lavoro a indumento per il tempo libero. Già la Prima Guerra Mondiale aveva portato grandi cambiamenti nell’abbigliamento femminile con indumenti informali in conseguenza dei ruoli ricoperti dalle donne come guidatrici di ambulanze o come infermiere.

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Nell’America immiserita dalla grande crisi economica del ’29, soprattutto le classi subalterne rimasero senza soldi, senza impiego e con un solo abito, quello da lavoro. Molti giornali come Life testimoniavano questa eroica lotta quotidiana alla povertà con i reportage di grandi fotografi e, per la prima volta, il denim diventò un simbolo. L’America conosceva questi nuovi eroi: cow boy, cantanti folk, operai, vagabondi, ragazzi di campagna tutti in jeans. Inoltre, anche le classi più agiate furono fortemente ridimensionate dalla grande crisi ed invece di favolosi viaggi, incominciarono a scoprire un turismo agreste nazionale entrando in contatto con la realtà rurale ed il jeans da semplice abito da lavoro si trasformò in abito da tempo libero.

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L’innamoramento degli americani per lo stile western fu dovuto fondamentalmente ai cantanti folk che ne diffondevano il mito come singing cowboy o ricoprendo ruoli da attori in saghe che proponevano una nuova immagine di cow boy, fittizia ma molto efficace.

L’ attore Roy Rogers interpretò un centinaio di film e fu il simbolo dell'eroe americano dell'epopea western soprannominato King of the cow-boy. Nel giro di pochi anni centinaia di pellicole di successo con uomini perennemente vestiti in denim contribuirono a costruire uno dei più grandi miti americani: l’epopea western. Il jeans quindi stava diventando una questione di moda tanto che la Levi’s produrrà nel 1938 il primo jeans da donna, il modello 701 e qualche anno più tardi inserirà l’etichettina rossa in verticale sulla tasca per garantirne l’autenticità essendo il trapunto arcuato sulla tasca copiatissimo dalle miriadi di aziende nate nel frattempo.

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Con la Seconda Guerra Mondiale il denim ebbe una ulteriore diffusione essendo parte dell’abbigliamento militare con pantaloni, tute da volo, uniformi, giubbetti, pur prodotti in modo più economico. Si creò in quegli anni anche un’eroina in denim, Rosie the Riveter (Rosie la rivettatrice) che diventò un’autentica icona nazionale, simbolo delle donne che avevano sostituito nelle fabbriche gli uomini andati in guerra. A renderla un’icona pop contribuì una copertina del periodico The Saturday Evening Post (1943, da un dipinto di Norman Rockwell) e soprattutto, un poster in cui, con fazzoletto in testa e maniche della camicia arrotolate, Rosie the Riveter mostrava spavalda i suoi muscoli ed incitava a tenere duro con la famosa frase “we can do it”. Con la fine della guerra quei pantaloni e capi in denim indossati dai soldati americani sarebbero stati conosciuti ovunque e percepiti come simbolo di libertà per le generazioni più giovani; i militari, tornando in patria si sarebbero lasciati dietro migliaia di quei pantaloni che sommergevano i mercati dell’usato.

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Nel dopoguerra il marchio Wrangler ebbe la geniale intuizione di promuovere i suoi jeans come pantaloni ufficiali del rodeo americano e indirettamente destinarli a tutti coloro che si vestivano ispirati al western style cioè qualche milione di americani. Si sostituirono i bottoni della patta con la cerniera metallica ed ancora oggi questi jeans sono l’abbigliamento di riferimento del rodeo che è sport nazionale in alcuni stati.

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Finita la guerra, i tanti ragazzi americani militari in Europa, faranno difficoltà a tornare alla normalità, la loro vita è segnata per sempre dalla guerra e molti saranno dei disadattati: le famose moto Harley Davidson, in dotazione all’esercito invaderanno il mercato dell’usato e saranno l’unica casa di migliaia di reduci senza tetto né legge, gente ribelle, incapace di reinserirsi in una società nella quale non si riconoscevano più. Formeranno bande di motociclisti che si spostavano ininterrottamente per i vari stati spesso protagonisti di zuffe e scazzottate, come lo storico raduno a Hollister in California nel 1947 quando bande di motociclisti rivali diedero vita a una mega rissa provocando una sessantina di feriti e che ispirò il famoso film Il selvaggio con Marlon Brando: il successo mondiale di questa pellicola ebbe un’importanza fondamentale nella storia del costume in quanto definì il modello estetico del bad boy vestito con giubbino di pelle nera (uno Schott NYC Perfecto 618), con T-shirt e jeans preferibilmente neri (Levi’s 501 button fly cioè con i bottoni e non la cerniera).

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Quindi a metà degli anni Cinquanta i jeans non sono più abiti da lavoro, non più per il tempo libero, non più moda in stile western ma un’icona dell’anticonformismo.

Per la prima volta nel 1960 il termine overalls venne sostituito dalla parola jeans, anzi la nuova categoria sociale dei teenagers cominciò a chiamare quei pantaloni blue jeans e il mega raduno di Woodstock del 1969 lo consacrò definitivamente come uno degli indumenti più conosciuto, indossato, simbolo di un’epoca.

(Fine 1a parte)

Cesarina Di Domenico-verdefiloLab

Bibliografia: “Blue de Gênes-Piccola storia universale del jeans”-Remo Guerrini-Ed. Mursia-2009
Enciclopedia Treccani on-line; Wikipedia

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