Parigi by knit – I capitoli perduti n°1

parigi by knit

 

“Ed è così che la mia pigrizia mi portò a rimanere nella comfort zone del 13esimo arrondissement, e, in nove mesi di permanenza a Parigi, visitare nessuno degli altri negozi di filati presenti nella capitale francese.  

“Ma Francesco, sei a Parigi e non vai in giro? Non esplori? Non ti informi?” direte voi, eh… no vi dico io.”

Quindi per accattivarmi il mio pubblico, vi butto lì alcune riflessioni sul mondo della maglia, italiano e non. Ricordo ai miei cari e squisiti lettori, che le mie sono opinioni, e vanno trattate come tali: aria fritta.

 

Partiamo dal presupposto che supero di qualche mese il quarto di secolo, e che mi sono avvicinato alla maglia e all’uncinetto solo quattro anni fa. Dov’ero all’epoca? Ero a Venezia, dove vivevo, studiavo e non lavoravo. Cosa ne sapevo di maglia allora? Nulla, zero, rien du tout. Sapevo giusto che servivano un filo e due ferri aguzzi. Così, preso dalla smania di provare, compro una tristissima matassa di cotone (provateci a darmi da lavorare del cotone adesso, provateci solo…) e due ferri dritti numero chissiricorda.

 

Vado a casa con il mio lauto bottino e mi metto a smadonnare con un ferro sotto l’ascella destra che guardava il soffitto e l’altro che cercava di dargli un bacino, lassù, e fargli lavorare una, una sola misera maglia. No, niet, nada, neanche quello, l’insormontabile difficoltà del lavoro a maglia alla tradizionale mi aveva sconfitto. Deluso, scoraggiato e incazzoso come non mai, mando tutto in vacca.

 


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Passa un giorno, ne passano due, ne passano forse addirittura tre; decido di comprarmi un uncinetto, dicendomi: eh beh serve giusto un attrezzo, imparare sarà una scemenza (ahi com’è dura autocensurarmi). Si rivela che l’uncinetto era sì molto più pratico dei ferri dritti e affilati, ma imparare ad avere la tensione giusta non era cosa da poco. La prima sciarpa era sostanzialmente un pizzo, da tanto le maglie non avevano consistenza, la seconda somigliava alla pelle di un tamburo. Al terzo tentativo era un qualcosa di accettabile, ricordo ancora la gioia che provai vedendo finita la mia prima opera d’arte… Terribile, ignobile e inaccettabile, avevo usato un gomitolo della Laine du Nord con una specie di nastro filato insieme alla lana, che se il cielo vuole non producono più. (grazie, grazie LdN, grazie). La soddisfazione all’epoca c’era, ma lavorare una sciarpa intera ad uncinetto era una menata; mi dedico quindi a lavorar centrini, ah! Che spettacolo! Adoro! Sfornavo centrini a ritmo industriale, ogni bicchiere in casa avrebbe potuto avere un centrino da quanto ero presobene. (ne avrò fatti 3, e mi reputo di manica larga…)

 

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Cambio repentino di scenario!

Quattro anni fa era il 2013, il 2013 era quattro anni fa. Non fa una piega. Chi stava prendendo piede in quel periodo? Stephen West. “E che palle” direte voi, “sempre lui!”. Eh già, sempre lui. Nonostante fosse all’opera dal 2009, ovvero da quando nacque Ravelry, io ci arrivo quattro anni dopo, quando arrivo non so come, su un video in cui mostra come lavorare nonsocheppunto con due bacchettini piccini collegati da un filo.

 

BAM APRITI CIELO, cosa sono questi strumenti del demonio? Queste diavolerie moderne? Ne voglio un paio! Vado da Marlene, la mia spacciatrice e ne compro un paio. Se ci ripenso, ho una tristissima immagine di quei ferretti della Prym in alluminio, con il cavo de plastegon, che tirava le fibre non appena raggiungevano le punte. Ma non li hanno ancora messi fuorilegge? Nessuno che si è studiato una causa milionaria contro la Prym e l’inventore di quegli strumenti di tortura? (sto scherzando ovviamente)

 

Finalmente imparo e sforno il mio primo scialle semicircolare a colori improbabili, messicaneggianti, mi mancava giusto un sombrero. Me ne viene commissionato addirittura uno! Al che mi monto la testa: “con i ferri conquisterò il mondo!” mi dico. Imparo subito però che lavorare su commissione è una truffa, ma una di quelle grosse, con tutte le lettere maiuscole. Dopo quattro anni non ho ancora cambiato idea.

 

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Salto di qualità! Mi laureo e torno a casa, in Liguria, dove la vita del lavoro a maglia è appeso a un filo, un filo vecchio e usurato, che non ci leghereste le mani neanche al vostro peggior ostaggio.

Dalle stelle alle stalle. Mi rifornisco al mercato, (al mercato?) 100 grammi di lana a due euro. Due euro? 100 grammi di lana per due caffè? Ingenuo, cado nella trappola e ne compro tre pacchi da un chilo cadauno. Lavoro sciarpe e pezzi di coperte, disfo e ridisfo, caccio tutto in uno scatolone a far la muffa.

 

Passano mesi interminabili e finalmente acquisto il mio primo gomitolo di lusso, 24 euro, aaaaah ora si che ragioniamo! Diamo il via alle danze! Ne compro quattro e sforno uno scialle che aveva ragione di essere chiamato tale.

Da allora non smetto di interrogarmi su cos’è che rende un qualsivoglia modello lavorato a maglia o a uncinetto, un qualcosa che valga davvero la pena di essere lavorato. Quanto conta la difficoltà esecutiva? C’è davvero differenza se un modello ha del pizzo incorporato o è una semplice (e noiosissima) maglia legaccio? Ma soprattutto, quanto conta l’occhio del designer, nel scegliere il colore e il filato perfetto? E perfetto per cosa? Perfetto per far si che l’utente clicchi su quel modello e non su quello di qualcun altro, no?

 

Dal punto di vista di chi lavora a maglia, alla fine, poco importa, sceglie a priori un modello che lo attiri, fa una sintesi di tutto ciò che gli piace, e trova a colpo d’occhio, il modello che preferisce. Ma dal punto di vista di chi disegna modelli, la vita non è per nulla facile, soprattutto se li disegna per mangiare e non solo per sollazzarsi i weekend.

Se curiosiamo fra le “Top 20” di Ravelry, le classifiche dei preferiti dagli utenti, notiamo subito alcuni nomi che rimangono stabili in classifica da tempo immemore, quali: Melanie Berg e Andrea Mowry. La prima che propone soprattutto maglia legaccio e qualche sezione di semplice pizzo in quasi tutti i suoi modelli, e la seconda che con non poca furbizia, se ne è uscita con uno scialle tremendamente semplice, ma con un effetto “WOW” che sta tutto nella scelta dei colori e dei filati, parlo del “Find your Fade”, con i suoi 17000 cuoricini e oltre 4000 progetti.

 

Dall’alto della mia poca esperienza, reputo che ormai, per il cliente medio, l’importanza della tecnica sia fortemente diminuita, per lasciare spazio a scelte cromatiche e filati “di lusso”, che stupiscono e ci meravigliano, facendoci pensare “che voglia di spendere 250 euro per uno scialle che posso fare a occhi chiusi e allo stesso tempo essere sicura al 99% che non ce ne sarà un altro uguale al mio”.

 

Voi cosa ne pensate oh popolo di italiani? Amanti dei filati Rowan e Drops?

L’articolo è finito, andate in peace.

Bisous bisous

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